ANTICHI ALIMENTI IN SARDEGNA
Fornello d'impasto. Fase più evoluta dall'età del Bronzo
Pan'ispeli (Pane di ghiande)Un proverbio sardo dice: “ a su famene, finza sa lande paret castanza” – quando si ha fame anche la ghianda può sembrare una castagna. Il proverbio sintetizza concetti carichi di verità e di tempi in cui la fame era sinonimo di paura e di morte. In buona parte del Medioevo, per le classi povere di tutta Europa, la fame era stata lo stimolo per ricercare alimenti per appagarla.
E’ risaputo che in Sardegna la ghianda è molto diffusa (di quercia, sughera e leccio) ed è stata utilizzata fin dall’antichità nell’alimentazione umana per realizzare un pane: pane de lande o pan’Ispeli. Una tipologia di pane sicuramente conosciuto fin dal Neolitico e non solo dai sardi. Di pane di ghiande se ne parla nella Bibbia, quando Enoch insegnava ai Nabatei la preparazione del pane di ghiande. Di questo pane ne riportano notizie gli scrittori greci perché utilizzato a Sparta. La ghianda è stata trovata anche su palafitte abitate nella valle del Po e in alcune vallate svizzere, evidentemente preparate per essere consumate dagli abitatori. Il pane di ghiande è stato nominato da Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia, descrivendolo come un pane di ghiande impastato con l’argilla, del quale si nutrivano i Sardi. Il pane di ghiande era un pane azzimo utilizzato per buona parte dell'anno e veniva preparato scegliendo la quantità necessaria di ghiande ben mature, le quali venivano sbucciate e lessate. L’acqua veniva filtrata attraverso uno strato di argilla, cenere e erbe aromatiche. La cenere depurava dal tannino delle ghiande, e l'argilla trasmetteva il glutine fondamentale per legare l'impasto. Ottenuta una specie di polenta con le ghiande lessate, si poneva ad asciugare su tavole per poi essere tagliate a tavolette a seccare al sole o al forno e poi consumato a fette. In alcuni paesi sardi dell’Ogliastra: Baunei, Talana, Arzana, Gairo e Jerzu, la preparazione di questo pane si è conservato fino agli anni ’50 del secolo scorso. Lo scrittore Vittorio Angius (1797-1862) affermava che "Le donne di Baunei ne portano in altri paesi e lo vendono più caro che se fosse di farina scelta. Se ne manda in dono e si pregia come una cosa singolare...". Il consumare su pan’Ispeli, oltre che per la necessità di sopperire alla fame in tempi di magra, è stato messo in relazione con antiche forme di geofagia (parola proveniente dal greco gé, terra, e phageìn, "mangiare" cioè “mangiare terra”). Già Platone consigliava alle donne incinte di ingerire argilla come ricostituente. I romani impastavano l’argilla con sangue di capra e ne facevano dei biscotti curativi. L’argilla simboleggiava il sangue della Dea Madre, fondamento culturale delle prime società primitive sarde e di tutto il bacino del Mediterraneo. La terra è anche madre che accoglie e alimentarsi con quel pane significava avvicinarsi alla divinità per assicurarsi così la salvezza nell’aldilà. Testo di Giovanni Fancello
Filindeu, filindeus, filindeosTesto di Giovanni Fancello. Esperto e docente di storia della gastronomia sarda. Autore di numerosissime pubblicazioni, fra le quali citiamo: Sabores de Mejlogu, Sardegna a tavola, Il pesce povero, Le erbe selvatiche, Le spezie. Collabora alle pagine gastronomiche delle più importanti testate giornalistiche sarde. Vincitore del concorso internazionale “Premio Marietta” di Pellegrino Artusi.
Ho già raccolto e scritto diverse informazioni sull’origine della pasta nuorese su filindeu, ma ne volevo completare la ricerca. Guardo per primo il sito “Sardegna Turismo” della Regione della Sardegna, e leggo: “Antica preparazione della zona della Barbagia (Nuoro), i filindeus sono un tipo di pasta allungata simile ai noodles. L’impasto costituito da semola di grano duro e acqua, viene lavorato a mano fino a renderlo elastico. La pasta ottenuta viene arrotolata e tirata con le mani fino a ottenere tanti fili, il cui spessore dipende dall’allungamento dell’impasto durante la lavorazione. Una volta terminata la preparazione, i fili così ottenuti si mettono su un piano circolare ad essiccare. Il risultato è determinato dalla maestria di chi li lavora. I filindeus vengono utilizzati per la preparazione di minestre a base di brodo di pecora, con l’aggiunta di formaggio fresco”. Devo dire che considero poco appropriata l’assimilazione della pasta sarda con i noodles, perché non si tiene conto che la pasta inglese non è prodotta con farina di grano duro, ma a base di miglio, di farina di frumento, di riso, di fagiolo mungo, di grano saraceno, di ghiande e sono produzioni indiane, giapponesi, cinesi, coreane etc. Nel sito SAPORE TIPICO.IT leggo: “Il filindeu è un tipo di pasta tradizionale del nuorese generalmente usata per fare zuppe e pastine in brodo. I fili di pasta di semola di grano duro fatta essiccare vengono spezzati e fatti cuocere nel brodo di pecora, con pecorino fresco acido (casu axedu). Viene così chiamato perché è una pasta filata, ottenuta dalla lavorazione manuale fino a diventare, appunto, filante. Il filindeu, i fili di Dio , deriva dall’antica tradizione sarda e la ricetta si tramanda di madre in figlia ed è radicata nella regione della Barbagia (Nuoro)". In questo sito si parla di pecorino fresco acidulo e lo chiama casu axedu, che non è un pecorino acido, ma una cagliata; non viene chiamato così perché è retenuto una pasta filata, ma perché appunto pasta filata non è. E poi traduce Filindeu in” fili di Dio”, senza spiegare su che base traduca su filindeu come “fili di Dio”. Prima di tutto mettiamo un po’ d’ordine sul nome: FILINDEU o FILINDEUS? I nuoresi si arrabbiano subito e dicono che la “S” finale sia un di più. Diverse sono le scuole di pensiero sull’origine della pasta secca, alcuni dicono che la pasta sia araba e portata in Sicilia dopo la sua conquista; qualcuno cinese (teoria forse sposata dalla Regione Sardegna che la assimila ai noodles) portata in Italia da Marco Polo dopo il suo lungo viaggio in Oriente, e c’è chi dice in modo più verosimile che sia l’evoluzione della lagananon greca. A Nuoro si prepara una pasta secca chiamata su filindeu, filindeus, e anche in questo caso la sua origine è controversa. Gli studiosi sardi fanno diverse ipotesi sia sull’origine di questa pasta, sia sul nome, che sul metodo di preparazione. Qualcuno interpreta il nome e dice che significhi “capelli di Dio”; qualcun altro li chiama “capelli d’angelo”. In realtà è una pasta dal nome, ma solo questo, di origine araba. La pasta viene ricavata da un impasto di semola di grano duro, acqua e sale. Dall’impasto si ottiene una base che viene stirata a mano, come per la preparazione degli “spaghettini”(termine improprio, ma efficace per spiegare bene il formato), finché non si presenta come un tessuto a trame sottili, intrecciato e trasparente. Viene fatta asciugare al sole su dei ripiani rotondi di asfodelo e cotta in un saporito brodo di pecora e condita con formaggio fresco acidulo. Nel ricercare l’origine della parola provo a consultare: - la relazione di Martin Carrillo nel 1612, inviato dal re di Spagna per fare un’analisi economica sull’isola e che partecipa ad un pranzo a Mamoiada con 2500 invitati dove si prepara, tra l’altro, i “Fideos”; - il Nou Vocabolariu Universali Sardu Italianu di Vincenzo Porru del 1832 che cita la pasta “Findeus”; - il canonico Giovanni Spano nel suo vocabolario del 1851 cita la pasta “Findèos”; - lo studioso Giovanni Maria Cabras che nel suo vocabolario Baroniesu italianu-italianu baroniesu del 2003 cita la pasta chiamandola “Filindéu“ che al plurale la chiama “Filindeos”. Spiega che la parola è proveniente dallo spagnolo “Fideos”, che l significa “fili”; - lo studioso Mario Puddu nel suo Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda del 2000-2004, cita la parola “Filindéu – Findeos – Findeus”, dando il significato di “capellino”. Difficile ora mettere in buon ordine le parole e capire come sia esatto denominarla. Il percorso del termine proviene sicuramente, come afferma il più grande studioso contemporaneo di alimentazione Massimo Montanari, dall’arabo fidaws, che vuol dire “capello”(cioè fine come un capello), e il termine, passando in Spagna dopo la conquista mussulmana, lo si ritrova nelle forme fideos in castigliano, fidiaux o fideis in provenzale. Con la conquista Catalana prima e spagnola poi, il termine si afferma anche in Sardegna: findeos, fundeos (in Logudoro), filande e filindeus. Nel XVI secolo, nel suo Tesoro de la lengua castellana o espanola, Sebastian Covarrubias scrive che i fideus o fideos sono dei maccheroni che sono come dei fili, o delle cordicelle sottili, e si intrecciano come esse. I Fidelari di Genova, associazione costituitasi nel 1574, commercializzavano i fidelini, pasta secca di grano duro, ma nella Repubblica marinara di Genova, nel XII sec., non vi è ancora prova della sua produzione e probabilmente provenienti dalla Sardegna. All’epoca è importante la commercializzazione della pasta secca sottilissima proveniente sia dalla Sicilia che dalla Sardegna che viene chiamata nei documenti doganali: macharoni, tria, fidej, fideus. La tipologia della pasta nuorese può quindi essere chiamata oggi indifferentemente: Filindeu, filindeus o filindeos. Leggi news Sardegna
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Lepre del prete
Questa è una ricetta del ‘400, si dice che i curati di campagna fossero dei buongustai e di conseguenza, con gli scarsi fondi che avevano, anche degli ottimi e appassionati cacciatori/bracconieri per riempire le loro credenze di ottimi e prelibati cibi gratis…
Cito testualmente: “Cercate una lepre di buona indole, disposta ad ogni sacrificio in vostro utile e che si faccia ammazzare quasi volentieri per il vostro piacere. Appena ammazzata la lepre, tuttora calda non state contenti di averla uccisa, ma spingete, vostro malgrado, il sentimento pratico sino a farla a pezzi mettendo da parte il sangue. Aggiungete cipolla, carota e sedano e mettete tutto in un paiolo col sangue, versatevi del vino santo che sia assai spiritoso, attaccate il paiolo all’uncino del camino e fate bollire con un buon fuoco di legna. Quando il vino abbia ben bollito ed il fuoco si sia quasi smorzato aggiungete olio e mescolate con la farina, riducete la salsa e servite.”
Convinto del piacere, con le debite modifiche di luogo e tempo, procedo e voi fate altrettanto!
INGREDIENTI
Lepre, suo sangue, carota, cipolla, sedano, dado, concentrato di pomodoro, vin santo, acqua, olio di oliva, pepe, uvette, maizena
PREPARAZIONE
Tagliate a pezzi la lepre dopo averla spellata, trattenete il suo sangue, usando una cipolla una carota e una costa di sedano fate un soffritto con olio di oliva. Quando il soffritto sarà dorato mettete i pezzi di lepre e fate dorare aggiungendo il pepe. Quando la carne è dorata e l’acqua che produce è evaporata aggiungete due bicchieri di vin santo e mezzo bicchiere di uva passa oltre che a un po’ di concentrato di pomodoro, aggiungete il dado di verdura e acqua a coprire, fate cuocere per un’ora abbassando la fiamma e coprendo, alla fine togliete i pezzi di lepre, controllate la salatura del sugo e rassodatelo con della maizena, versate il sugo sulla lepre e servite accompagnata da polenta bianca grigliata.
Testo a cura di Andrea Dario Manzi Fè
Cito testualmente: “Cercate una lepre di buona indole, disposta ad ogni sacrificio in vostro utile e che si faccia ammazzare quasi volentieri per il vostro piacere. Appena ammazzata la lepre, tuttora calda non state contenti di averla uccisa, ma spingete, vostro malgrado, il sentimento pratico sino a farla a pezzi mettendo da parte il sangue. Aggiungete cipolla, carota e sedano e mettete tutto in un paiolo col sangue, versatevi del vino santo che sia assai spiritoso, attaccate il paiolo all’uncino del camino e fate bollire con un buon fuoco di legna. Quando il vino abbia ben bollito ed il fuoco si sia quasi smorzato aggiungete olio e mescolate con la farina, riducete la salsa e servite.”
Convinto del piacere, con le debite modifiche di luogo e tempo, procedo e voi fate altrettanto!
INGREDIENTI
Lepre, suo sangue, carota, cipolla, sedano, dado, concentrato di pomodoro, vin santo, acqua, olio di oliva, pepe, uvette, maizena
PREPARAZIONE
Tagliate a pezzi la lepre dopo averla spellata, trattenete il suo sangue, usando una cipolla una carota e una costa di sedano fate un soffritto con olio di oliva. Quando il soffritto sarà dorato mettete i pezzi di lepre e fate dorare aggiungendo il pepe. Quando la carne è dorata e l’acqua che produce è evaporata aggiungete due bicchieri di vin santo e mezzo bicchiere di uva passa oltre che a un po’ di concentrato di pomodoro, aggiungete il dado di verdura e acqua a coprire, fate cuocere per un’ora abbassando la fiamma e coprendo, alla fine togliete i pezzi di lepre, controllate la salatura del sugo e rassodatelo con della maizena, versate il sugo sulla lepre e servite accompagnata da polenta bianca grigliata.
Testo a cura di Andrea Dario Manzi Fè
Formaggi di Sardegna
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Merca nuorese
Ingredienti
due litri freschi di latte di pecora - un pizzico di caglio di agnello o capretto (giagu)
Preparazione
Versate il latte in una pentola larga e poggiatela sul fuoco leggero fino a che non raggiunge i 35 gradi. Allontanate quindi la padella dal fuoco ed aggiungete il caglio sbriciolandolo e cercando di scioglierlo man mano. Mescolate bene per favorirne la distribuzione del caglio e lasciate cagliare per circa 30 minuti, un’ora. Ottenuta una cagliata ben rappresa e soda tagliatela, con un coltello, a fette per favorire la fuoriuscita del siero (soru). Lascietele così per circa 30 minuti in modo che le fette raggiungano una buona consistenza. Estraete quindi le fette dalla pentola e poggiatele su un tavolo ad asciugare, per qualche tempo, esponendole al sole e all’aria consentendo così di farle inacidire. Appena ben asciutte e acide si ripongano in un recipiente e si ricoprano di sale per avere una ottima conservazione e per lungo tempo. Sono ottime ripulite successivamente dal sale ed utilizzate per insaporire le minestre in brodo o di verdure.
Testo di Giovanni Fancello
due litri freschi di latte di pecora - un pizzico di caglio di agnello o capretto (giagu)
Preparazione
Versate il latte in una pentola larga e poggiatela sul fuoco leggero fino a che non raggiunge i 35 gradi. Allontanate quindi la padella dal fuoco ed aggiungete il caglio sbriciolandolo e cercando di scioglierlo man mano. Mescolate bene per favorirne la distribuzione del caglio e lasciate cagliare per circa 30 minuti, un’ora. Ottenuta una cagliata ben rappresa e soda tagliatela, con un coltello, a fette per favorire la fuoriuscita del siero (soru). Lascietele così per circa 30 minuti in modo che le fette raggiungano una buona consistenza. Estraete quindi le fette dalla pentola e poggiatele su un tavolo ad asciugare, per qualche tempo, esponendole al sole e all’aria consentendo così di farle inacidire. Appena ben asciutte e acide si ripongano in un recipiente e si ricoprano di sale per avere una ottima conservazione e per lungo tempo. Sono ottime ripulite successivamente dal sale ed utilizzate per insaporire le minestre in brodo o di verdure.
Testo di Giovanni Fancello
MERCA NUORESE
Chi ha visitato l'Oristanese da turista indipendente può aver avuto la fortuna di imbattersi in un cibo raro, antico e squisito che è chiamato Merca.
Voi direte: che c'entra Oristano con Nuoro? Nulla, infatti…..perché la merca oristanese è pesce, pesce conservato con un metodo particolarissimo dai pescatori della laguna di Cabras.
La merca nuorese invece è tutt'altra cosa! Tipica delle Barbagie del Nuorese e dell'Ogliastra, sa merca viene fatta con latte appena munto, caglio e sale. Si fa cagliare il latte e lo si lascia riposare senza assolutamente spostarlo fino a quando raggiunge una consistenza tale da poterlo affettare. Lo si taglia quindi a fette, lo si lascia ancora riposare affinché le fette si rassodino ancora di più; si estraggono quindi dal siero e si mettono su un piano ad asciugare.
Asciutte, si salano da entrambi i lati, in abbondanza, si lasciano asciugare ancora per molti giorni, fino a che la merca è pronta per essere messa in salamoia, dove si conserva a lungo, per essere usata dai pastori nei lunghi inverni trascorsi fuori dalle proprie case.
SA CASADA
Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che il latte di pecora per tradizione, può essere munto solo in periodi precisi, che solitamente vanno da febbraio a luglio, tempo nel quale sia l'abbondanza di erba, sia l'assenza di agnelli da allattare, fanno sì che le pecore producano un latte che, come qualità e quantità, possa essere adatto alla produzione di pecorini di un certo rilievo. In autunno quindi, e fino alla primavera, pecore e capre sono impegnate nei parti e nell'allattamento e i pastori, che dovevano comunque trarre il loro sostentamento da esse, adoperavano il colostro, vischioso e giallognolo, che col calore si condensa fino a rapprendersi, trasformandosi nella casada, molto saporita e sostanziosa.
In tempi non troppo lontani anche i bambini venivano lasciati a guardia del gregge ed essendo essi sprovvisti di recipienti per la cottura del colostro, si ingegnavano a procurarsi delle canne palustri, ancora verdi, cave, che riempivano di colostro, piazzavano sopra le braci ardenti e lasciavano annerire per qualche minuto. Aprivano quindi in due la canna con l'immancabile coltello a serramanico e ne estraevano un cilindretto di latte raffermo che gustavano come una prelibatezza.
SA FRUE
Si tratta di un latte cagliato fatto col latte appena munto e il caglio di agnello o di capretto. Ponendo il latte in un recipiente, vi si immerge, poi strizzandolo, un po’ di caglio racchiuso in un contenitore di pezza. Lo si mescola bene e lo si lascia riposare in luogo tiepido fino a quando non sia ben sodo. A questo punto lo si taglia in grandi fette che, per effetto di questa operazione, diventeranno ancora più consistenti e saranno circondate dal siero giallo verdastro, che gli anziani erano soliti bere la mattina, a digiuno, perché lo consideravano un ottimo depurativo. Le fette di cagliata, sa frue, si possono gustare a cucchiaiate, o posandole su un piatto, anch'esso completamente commestibile, di pane carasau.
CASU AXEDU
È praticamente sa frue lasciata inacidire per circa una giornata e mezzo, affinchè appunto possa avere un sapore acidulo, particolarmente gradito al gusto dei sardi. Per accelerare questa preparazione si poteva alternativamente versare del siero precedentemente conservato, al momento di tagliare a fette la cagliata, ovvero immergervi un pezzo di pane. Si parla ovviamente di pane fatto in casa, col lievito naturale, una mardighe, dono preziosissimo che le madri regalavano alle figlie al momento di andare spose, come preziosa eredità familiare e fonte di sostentamento per tutta la nuova famiglia.
Ma questo è un altro racconto, che magari amplieremo in un'altra sezione.
MERCA NUORESE
Chi ha visitato l'Oristanese da turista indipendente può aver avuto la fortuna di imbattersi in un cibo raro, antico e squisito che è chiamato Merca.
Voi direte: che c'entra Oristano con Nuoro? Nulla, infatti…..perché la merca oristanese è pesce, pesce conservato con un metodo particolarissimo dai pescatori della laguna di Cabras.
La merca nuorese invece è tutt'altra cosa! Tipica delle Barbagie del Nuorese e dell'Ogliastra, sa merca viene fatta con latte appena munto, caglio e sale. Si fa cagliare il latte e lo si lascia riposare senza assolutamente spostarlo fino a quando raggiunge una consistenza tale da poterlo affettare. Lo si taglia quindi a fette, lo si lascia ancora riposare affinché le fette si rassodino ancora di più; si estraggono quindi dal siero e si mettono su un piano ad asciugare.
Asciutte, si salano da entrambi i lati, in abbondanza, si lasciano asciugare ancora per molti giorni, fino a che la merca è pronta per essere messa in salamoia, dove si conserva a lungo, per essere usata dai pastori nei lunghi inverni trascorsi fuori dalle proprie case.
SU VISCIDU
Stessa identica preparazione, ma con un sapore acidulo accentuato dall'aggiunta, una volta affettata la cagliata, di siero conservato dal giorno prima.
Lo si lascia quindi riposare, immobile, fino a quando il siero fuoriesce completamente e le fette si sono inacidite e rassodate tanto da poter essere messe ad asciugare su tavole apposite, coperte da buchi, per favorire la fuoriuscita del rimanente siero. Si cospargono di sale fino da una parte, si lasciano riposare 24 ore, si salano dall'altro lato e dopo altre 24 ore si lava su viscidu e lo si mette in salamoia in un apposito recipiente a bocca larga, coperto da una pietra per evitare che su viscidu affiori.
Si usa prevalentemente per la preparazione di agnolotti, minestre, minestrone e altre pietanze di uso barbaricino.
SU CALLU
Su callu (non ridete, perché altrimenti vi dico che in logudorese meridionale si dice "cazzu" con la zeta dolce, e così ridacchiate ancora di più e vi perdete la spiegazione!) altro non è che il caglio, contenuto nell'abomaso di agnelli e capretti da latte, che non devono assolutamente aver iniziato a brucare l'erba.
Il caglio viene giornalmente usato per il confezionamento del formaggio. Tuttavia sia in Ogliastra che in Barbagia veniva talvolta conservato intero e tenuto appeso fino al suo completo rassodamento.
In questo modo si ottiene un formaggio naturale, talmente piccante che non da tutti viene apprezzato, e che si può mangiare spalmato sul pane carasau ovvero arrostito sulle braci o ancora fritto nell'olio o preparato con lardo e uova.
Abbondante vino di accompagnamento, rigorosamente Cannonau, Nepente e similari….e un buon cardiochirurgo a portata di mano, perché credo che l'apporto di colesterolo sia da capogiro! Ma si sa, una volta tanto si potrebbe anche fare un'eccezione, no?
BURRO DI RICOTTA
Questa è una preparazione tipica degli stazzi della Gallura.
La ricotta è un vero problema per i pastori (e a volte anche per me, quando faccio il mio pecorino) nel senso che ogni volta che si prepara il formaggio, si ricava una forma più o meno grande di ricotta.
Per i pastori, che trasformano quotidianamente decine di litri di latte in chili e chili di pecorino, la quantità di ricotta prodotta è tale che spesso il siero non viene neppure fatto bollire ma viene usato come cibo per i preziosissimi cani pastori fonnesi, guardiani senza prezzo del gregge.
Talvolta, dalla ricotta, si ricava un prodotto alternativo, una specie di burro, adatto a un uso immediato o a una conservazione non molto lunga, specie se si pensa che negli stazzi difficilmente si poteva usufruire di un frigorifero!
Si lavora la ricotta con un matterello di legno, usato come una frusta, in un recipiente alto e stretto. Dopo una lunga lavorazione, dalla ricotta fuoriesce da una parte il siero e dall'altra si forma una pasta grassa e compatta, molto simile al burro. Si poteva usare come sostituto dell'olio e dello strutto, il primo troppo di lusso, il secondo troppo delicato per poter essere conservato per mesi nella pinnetta, rifugio invernale del solitario pastore.
MAZZA FRISSA
E' una sorta di dolce, tipicamente gallurese. Si prepara con la panna liquida di latte di pecora fatto bollire, farina e, a piacimento, miele. In un recipiente di terracotta si versa la panna liquida del latte, la si porta a ebollizione , quindi si versa a pioggia la farina in quantità sufficiente da formare una massa consistente, da rigirarsi con un mestolo di legno. Quando il tutto è ben amalgamato, ci si versa un bicchiere d'acqua leggermente salata e si continua a rimestare. A poco a poco l'impasto si stacca dalle pareti del recipiente, rilasciando un liquido grasso di colore giallo (l'ociu casgiu) ossia una sorta di olio di formaggio, che viene raccolto e conservato in vasi di terracotta e usato al posto del burro e dello strutto, come condimento per la pasta, la minestra e il confezionamento di dolci tipici. L'impasto staccatosi dalle pareti viene servito ancora caldo e condito col miele, a mò di dolce.
RICOTTA SECCA
La si conserva salata e affumicata, lasciandola stagionare per diversi mesi. Nelle famiglie più povere, specie quelle dei contadini, che non possedevano un gregge, era usata come companatico al posto del formaggio e come condimento delle paste asciutte.
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Chi ha visitato l'Oristanese da turista indipendente può aver avuto la fortuna di imbattersi in un cibo raro, antico e squisito che è chiamato Merca.
Voi direte: che c'entra Oristano con Nuoro? Nulla, infatti…..perché la merca oristanese è pesce, pesce conservato con un metodo particolarissimo dai pescatori della laguna di Cabras.
La merca nuorese invece è tutt'altra cosa! Tipica delle Barbagie del Nuorese e dell'Ogliastra, sa merca viene fatta con latte appena munto, caglio e sale. Si fa cagliare il latte e lo si lascia riposare senza assolutamente spostarlo fino a quando raggiunge una consistenza tale da poterlo affettare. Lo si taglia quindi a fette, lo si lascia ancora riposare affinché le fette si rassodino ancora di più; si estraggono quindi dal siero e si mettono su un piano ad asciugare.
Asciutte, si salano da entrambi i lati, in abbondanza, si lasciano asciugare ancora per molti giorni, fino a che la merca è pronta per essere messa in salamoia, dove si conserva a lungo, per essere usata dai pastori nei lunghi inverni trascorsi fuori dalle proprie case.
SA CASADA
Forse non tutti sono a conoscenza del fatto che il latte di pecora per tradizione, può essere munto solo in periodi precisi, che solitamente vanno da febbraio a luglio, tempo nel quale sia l'abbondanza di erba, sia l'assenza di agnelli da allattare, fanno sì che le pecore producano un latte che, come qualità e quantità, possa essere adatto alla produzione di pecorini di un certo rilievo. In autunno quindi, e fino alla primavera, pecore e capre sono impegnate nei parti e nell'allattamento e i pastori, che dovevano comunque trarre il loro sostentamento da esse, adoperavano il colostro, vischioso e giallognolo, che col calore si condensa fino a rapprendersi, trasformandosi nella casada, molto saporita e sostanziosa.
In tempi non troppo lontani anche i bambini venivano lasciati a guardia del gregge ed essendo essi sprovvisti di recipienti per la cottura del colostro, si ingegnavano a procurarsi delle canne palustri, ancora verdi, cave, che riempivano di colostro, piazzavano sopra le braci ardenti e lasciavano annerire per qualche minuto. Aprivano quindi in due la canna con l'immancabile coltello a serramanico e ne estraevano un cilindretto di latte raffermo che gustavano come una prelibatezza.
SA FRUE
Si tratta di un latte cagliato fatto col latte appena munto e il caglio di agnello o di capretto. Ponendo il latte in un recipiente, vi si immerge, poi strizzandolo, un po’ di caglio racchiuso in un contenitore di pezza. Lo si mescola bene e lo si lascia riposare in luogo tiepido fino a quando non sia ben sodo. A questo punto lo si taglia in grandi fette che, per effetto di questa operazione, diventeranno ancora più consistenti e saranno circondate dal siero giallo verdastro, che gli anziani erano soliti bere la mattina, a digiuno, perché lo consideravano un ottimo depurativo. Le fette di cagliata, sa frue, si possono gustare a cucchiaiate, o posandole su un piatto, anch'esso completamente commestibile, di pane carasau.
CASU AXEDU
È praticamente sa frue lasciata inacidire per circa una giornata e mezzo, affinchè appunto possa avere un sapore acidulo, particolarmente gradito al gusto dei sardi. Per accelerare questa preparazione si poteva alternativamente versare del siero precedentemente conservato, al momento di tagliare a fette la cagliata, ovvero immergervi un pezzo di pane. Si parla ovviamente di pane fatto in casa, col lievito naturale, una mardighe, dono preziosissimo che le madri regalavano alle figlie al momento di andare spose, come preziosa eredità familiare e fonte di sostentamento per tutta la nuova famiglia.
Ma questo è un altro racconto, che magari amplieremo in un'altra sezione.
MERCA NUORESE
Chi ha visitato l'Oristanese da turista indipendente può aver avuto la fortuna di imbattersi in un cibo raro, antico e squisito che è chiamato Merca.
Voi direte: che c'entra Oristano con Nuoro? Nulla, infatti…..perché la merca oristanese è pesce, pesce conservato con un metodo particolarissimo dai pescatori della laguna di Cabras.
La merca nuorese invece è tutt'altra cosa! Tipica delle Barbagie del Nuorese e dell'Ogliastra, sa merca viene fatta con latte appena munto, caglio e sale. Si fa cagliare il latte e lo si lascia riposare senza assolutamente spostarlo fino a quando raggiunge una consistenza tale da poterlo affettare. Lo si taglia quindi a fette, lo si lascia ancora riposare affinché le fette si rassodino ancora di più; si estraggono quindi dal siero e si mettono su un piano ad asciugare.
Asciutte, si salano da entrambi i lati, in abbondanza, si lasciano asciugare ancora per molti giorni, fino a che la merca è pronta per essere messa in salamoia, dove si conserva a lungo, per essere usata dai pastori nei lunghi inverni trascorsi fuori dalle proprie case.
SU VISCIDU
Stessa identica preparazione, ma con un sapore acidulo accentuato dall'aggiunta, una volta affettata la cagliata, di siero conservato dal giorno prima.
Lo si lascia quindi riposare, immobile, fino a quando il siero fuoriesce completamente e le fette si sono inacidite e rassodate tanto da poter essere messe ad asciugare su tavole apposite, coperte da buchi, per favorire la fuoriuscita del rimanente siero. Si cospargono di sale fino da una parte, si lasciano riposare 24 ore, si salano dall'altro lato e dopo altre 24 ore si lava su viscidu e lo si mette in salamoia in un apposito recipiente a bocca larga, coperto da una pietra per evitare che su viscidu affiori.
Si usa prevalentemente per la preparazione di agnolotti, minestre, minestrone e altre pietanze di uso barbaricino.
SU CALLU
Su callu (non ridete, perché altrimenti vi dico che in logudorese meridionale si dice "cazzu" con la zeta dolce, e così ridacchiate ancora di più e vi perdete la spiegazione!) altro non è che il caglio, contenuto nell'abomaso di agnelli e capretti da latte, che non devono assolutamente aver iniziato a brucare l'erba.
Il caglio viene giornalmente usato per il confezionamento del formaggio. Tuttavia sia in Ogliastra che in Barbagia veniva talvolta conservato intero e tenuto appeso fino al suo completo rassodamento.
In questo modo si ottiene un formaggio naturale, talmente piccante che non da tutti viene apprezzato, e che si può mangiare spalmato sul pane carasau ovvero arrostito sulle braci o ancora fritto nell'olio o preparato con lardo e uova.
Abbondante vino di accompagnamento, rigorosamente Cannonau, Nepente e similari….e un buon cardiochirurgo a portata di mano, perché credo che l'apporto di colesterolo sia da capogiro! Ma si sa, una volta tanto si potrebbe anche fare un'eccezione, no?
BURRO DI RICOTTA
Questa è una preparazione tipica degli stazzi della Gallura.
La ricotta è un vero problema per i pastori (e a volte anche per me, quando faccio il mio pecorino) nel senso che ogni volta che si prepara il formaggio, si ricava una forma più o meno grande di ricotta.
Per i pastori, che trasformano quotidianamente decine di litri di latte in chili e chili di pecorino, la quantità di ricotta prodotta è tale che spesso il siero non viene neppure fatto bollire ma viene usato come cibo per i preziosissimi cani pastori fonnesi, guardiani senza prezzo del gregge.
Talvolta, dalla ricotta, si ricava un prodotto alternativo, una specie di burro, adatto a un uso immediato o a una conservazione non molto lunga, specie se si pensa che negli stazzi difficilmente si poteva usufruire di un frigorifero!
Si lavora la ricotta con un matterello di legno, usato come una frusta, in un recipiente alto e stretto. Dopo una lunga lavorazione, dalla ricotta fuoriesce da una parte il siero e dall'altra si forma una pasta grassa e compatta, molto simile al burro. Si poteva usare come sostituto dell'olio e dello strutto, il primo troppo di lusso, il secondo troppo delicato per poter essere conservato per mesi nella pinnetta, rifugio invernale del solitario pastore.
MAZZA FRISSA
E' una sorta di dolce, tipicamente gallurese. Si prepara con la panna liquida di latte di pecora fatto bollire, farina e, a piacimento, miele. In un recipiente di terracotta si versa la panna liquida del latte, la si porta a ebollizione , quindi si versa a pioggia la farina in quantità sufficiente da formare una massa consistente, da rigirarsi con un mestolo di legno. Quando il tutto è ben amalgamato, ci si versa un bicchiere d'acqua leggermente salata e si continua a rimestare. A poco a poco l'impasto si stacca dalle pareti del recipiente, rilasciando un liquido grasso di colore giallo (l'ociu casgiu) ossia una sorta di olio di formaggio, che viene raccolto e conservato in vasi di terracotta e usato al posto del burro e dello strutto, come condimento per la pasta, la minestra e il confezionamento di dolci tipici. L'impasto staccatosi dalle pareti viene servito ancora caldo e condito col miele, a mò di dolce.
RICOTTA SECCA
La si conserva salata e affumicata, lasciandola stagionare per diversi mesi. Nelle famiglie più povere, specie quelle dei contadini, che non possedevano un gregge, era usata come companatico al posto del formaggio e come condimento delle paste asciutte.
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Tipi di pane in Sardegna
Ogni paese, ogni festa ha il suo pane
Pane d'uso quotidiano
Si produceva una volta alla settimana, per i pani particolarmente durevoli una volta al mese. In base alla forma, si distinguono tre tipi fondamentali:
In genere i pani più sottili e senza mollica avevano una maggior durata.
Caratteristiche comuni di tutti questi pani erano l'uso della lievitazione e il sapore piacevolmente salato.
L'ingrediente fondamentale era sempre la farina di grano: più essa era bianca e fine, più il pane veniva considerato di pregio.
Esistevano anche pani a base di orzo e addirittura di ghiande: erano però prodotti solo in assenza di farina di grano.
Curiosità: il Pane di ghiande
Le ghiande sbucciate venivano fatte bollire per tre volte: prima nell'acqua semplice, poi con l'aggiunta di argilla rossa, infine con l'aggiunta di cenere di leccio. Quando l'impasto diventava di colore rosso scuro e di giusta consistenza, si lasciava rapprendere: la pasta veniva poi modellata in panetti e lasciata asciugare al sole.
Pane cerimoniale
Di produzione straordinaria, indicava un evento altrettanto straordinario, sia in rapporto a festività liturgiche (CAPODANNO, PASQUA), sia a momenti importanti della vita individuale (NOZZE, NASCITA). La sua straordinarietà era ribadita anche dalla decorazione, particolarmente elaborata.
Ricordiamone alcune tipologie in rapporto alla festività da celebrare:
Pane condito
pane speciale, considerato una via di mezzo fra il quotidiano e il cerimoniale.
Veniva arricchito con ingredienti variabili: olive, patate, ciccioli di lardo, ricotta, cipolle.
Pane particolare
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Pane d'uso quotidiano
Si produceva una volta alla settimana, per i pani particolarmente durevoli una volta al mese. In base alla forma, si distinguono tre tipi fondamentali:
- pani piatti, circolari e flessibili(SPIANATA). Sono tipici dell'area settentrionale dell'isola.
- pani piatti e circolari, macroccanti e sottilissimi (PANE CARASAU). Sono caratteristici del centro-Sardegna (Barbagia e Nuorese).
- pani grossi e con mollica (CIVRAXIU). Diffusi in tutto il territorio, sono tipici però del meridione dell'isola.
In genere i pani più sottili e senza mollica avevano una maggior durata.
Caratteristiche comuni di tutti questi pani erano l'uso della lievitazione e il sapore piacevolmente salato.
L'ingrediente fondamentale era sempre la farina di grano: più essa era bianca e fine, più il pane veniva considerato di pregio.
Esistevano anche pani a base di orzo e addirittura di ghiande: erano però prodotti solo in assenza di farina di grano.
Curiosità: il Pane di ghiande
Le ghiande sbucciate venivano fatte bollire per tre volte: prima nell'acqua semplice, poi con l'aggiunta di argilla rossa, infine con l'aggiunta di cenere di leccio. Quando l'impasto diventava di colore rosso scuro e di giusta consistenza, si lasciava rapprendere: la pasta veniva poi modellata in panetti e lasciata asciugare al sole.
Pane cerimoniale
Di produzione straordinaria, indicava un evento altrettanto straordinario, sia in rapporto a festività liturgiche (CAPODANNO, PASQUA), sia a momenti importanti della vita individuale (NOZZE, NASCITA). La sua straordinarietà era ribadita anche dalla decorazione, particolarmente elaborata.
Ricordiamone alcune tipologie in rapporto alla festività da celebrare:
- Capodanno:
pane a forma di piccolo bastone, con la parte superiore a spirale e l'inferiore divisa in due, simile a una V rovesciata. Voleva rappresentare il bastone vescovile. Donato ai bambini durante i loro giri di questua, era noto anche come BACCHIDDU 'E DEU. Tipico del Logudoro. - Commemorazione dei defunti:
pane KOKKOI più grande del formato normale e lucidato; preparato per l'occasione, era usato per imbandire, assieme ad altri alimenti e bevande, il cosiddetto "tavolo dei morti". Ricordiamo inoltre un tipo di pane dal nome chiaramente evocativo, detto "osso di morto". - Domenica delle palme:
pane modellato a strisce per ricordare l'intreccio delle foglie di palma. Si donava ai bambini. - Festa di sant'Agata (5 febbraio):
pane piccolo come un acino d'uva, a forma di mammella per ricordare il martirio della Santa. Veniva lanciato sui tetti durante i temporali e le grandinate, per scongiurarne i pericoli. - Festa di Sant'Antonio (17 gennaio):
pane a forma di ciambella, in genere a base di farina e sapa, ma con ingredienti diversi a seconda delle zone. In Ogliastra l'impasto era arricchito con noci, mandorle e spezie, il tutto coperto da cappa d'albume. Veniva portato in chiesa come voto al Santo. - Festa di San Marco (25 aprile):
pane di semola a forma di torta o di grossa corona: era decorato su tutta la superficie con uccelli e fiori. Si credeva che proteggesse la casa, i campi e il bestiame da influssi negativi. - Nascita:
pane KOKKOI modellato con punte, usato per trarre auspici sul destino del neonato. Ormai scomparso, fu condannato dal Sinodo di Cagliari del 1715. - Nozze:
pane bianco e piccolo, senza spessore; in genere a forma di cuore, stella, a mezza luna, sole, nido. Era particolarmente decorato, sia ad INTAGLIO che ad IMPRESSIONE; veniva rifinito con la LUCIDATURA. Noto anche come PANE DE KOJUADOS NOOS. - Quaresima:
pane a forma di figura femminile dotata di sette gambe o sette piedi. Veniva usato come calendario in attesa della Pasqua. - Pasqua:
pane a forma di corona, colomba, gallinella, pulcino, lavorati ad intaglio e ad incisione: si distingue per la presenza di un uovo col guscio inserito nella pasta modellata. Veniva regalato ai bambini ed era considerato di buon augurio. - Settimana Santa:
pani a forma di croce, di corona di spine, di scala: tutti simboli della passione di Cristo
Pane condito
pane speciale, considerato una via di mezzo fra il quotidiano e il cerimoniale.
Veniva arricchito con ingredienti variabili: olive, patate, ciccioli di lardo, ricotta, cipolle.
Pane particolare
- Pani-giocattolo:
destinati ai bambini, erano a forma di bamboline, cavallini, collane, biciclette. Spesso perdevano la funzione di alimento e venivano usati semplicemente come giocattoli. - Pane dentarolo:
di pasta dura, aiutavano gli infanti a calmare i fastidi della prima dentizione. Sono ormai scomparsi. - Pani-scultura
>SA TUNDA:
grande pane di forma rotonda, in cui erano rappresentati dei buoi aggiogati, un uomo intento a seminare, un grappolo d'uva, una spiga, un fiasco di vino e degli uccellini.
Diffuso nel territorio di Busachi, era considerato di buon auspicio per l'andamento del lavoro agricolo.
Per Capodanno veniva tagliato dal capofamiglia, che prendeva per sé la prima fetta e riservava la seconda al bestiame: il resto veniva invece destinato alla famiglia ed ai questuanti.
>SA PERTUSITA:
grande pane la cui decorazione era ispirata a scene di vita pastorale: vi erano raffigurati l'ovile, il pastore, le pecore, il cane. Era oggetto di dono : nel Meilogu e in Logudoro durante il Capodanno o l'Epifania, in Barbagia per Pasqua.
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